terça-feira, 14 de junho de 2011

Prefácio do professor Eligio para o meu novo livro, produto da pesquisa de pós-doutoramento

Prefacio

L’itinerario intellettuale di Fabiana Marion Spengler è esemplare. Studiosa da molti anni della risoluzione dei conflitti è partita dai temi, complicati, della “pratica” della mediazione su cui ha scritto molte cose interessanti; ma proprio in questo itinerario ha avvertito l’esigenza, impellente, di attraversare i fondamenti teorici della teoria del conflitto e del suo controllo. E’ esemplare perché descrive esattamente la tensione e l’inquietudine delle scienze sociali che si sono ripiegate su tali temi.

Dopo il fervore degli studi su come, tra chi e tra cosa mediare che, francamente hanno cumulato soltanto saperi tautologici, si è sentito il bisogno di guardare più in là e di scavare in una lunga tradizione filosofico antropologica che ha ruotato intorno al pensiero della mesotes. La tradizione è ricchissima e risalente: non è un caso che il pensiero della mediazione coincida con ogni aspetto dello studio della comunità politica e, quindi, col fondamento del legame sociale che l’attraversa.

Questo spiega cosa abbiano a che fare Aristotele, Agostino, Spinoza, Kant con la mediazione. La dimensione filosofica della mediazione è la vera scoperta che uno studioso incontra mentre si occupa di “progettare” istituti e pratiche del gioco mediatorio. Scoperta non fine a se stessa e destinata a vivere nell’aria rarefatta dei concetti, ma che dà spessore e profondità alle scelte di politica pubblica attinenti alla gestione e risoluzione dei conflitti.

Fabiana Marion Spengler ha colto fino in fondo questo nesso e lo ha sviluppato con intelligenza. Ne è emerso un primo tentativo, e non mi risulta che ce ne siano molti, di una teoria generale della “mediazione”. Che la mediazione sia un nodo linguistico che incrocia i grandi temi della riflessione classica è provato dalla persistenza semantica che le sue “parole” costantemente attestano. La radice indoeuropea “med” è all’origine non soltanto dell’agire strategico espresso dal lemma “mezzo per” che si ritrova nel medico, nella medicina, nel ri-medio, ma anche nello “stare tra”, nell’essere un elemento interno al gioco comunitario (dei configgenti) e non soltanto. E’ all’origine delle meditationes, come di Medea: nella cultura latina la sua complessità era espressa da quella singolare esperienza filosofica, antropologica e geo-politica offerta dal Medi-terraneo.

Da ogni parte la mediazione richiama i grandi temi del sapere della comunità e a questi va restituita, prima di essere avvilita e riconsegnata a ignari ingegneri delle istituzioni. Il lavoro, dunque, introduce un aspetto essenziale della riflessione teorica e Fabiana si muove bene in questo codice linguistico. Non è un caso che parta dalla philìa greca e dall’amicitia latina, che erano ancora il cemento della comunità, per misurare quanto abbiano funzionato i codici im-munitari.

Oggi il diritto che si è assunto come forma generale di decisione del conflitto, mostra “incompetenza” linguistica a risolvere i conflitti perché i suoi codici immunitari non sono così onnipotenti. De-cidere e mediare sono processi lontanissimi tra loro. Il giudice non deve né può mediare, e il mediatore non deve e non può decidere: il giudice deve essere “terzo”, il mediatore assolutamente no.

Il passaggio ulteriore nell’itinerario del libro evidenzia come il gioco della politica attraverso la coppia amico/nemico, abbia spostato, ma non risolto il problema del conflitto e della sua immunizzazione, ma anzi, lo abbia riproposto fino in fondo.

Bisogna allora trovare altre dimensioni capaci di rimettere in piedi l’analisi: il suggerimento del libro è chiaro. Tempo e spazio, categorie aristoteliche, sono quelle che ci spiegano senso e sfida teorica della mediazione. Qui si incrocia il tema della com-munitas; tempo e spazio nello stesso momento, caratterizzati dal munus, dovere e dono insieme. Così i configgenti si ritrovano comunità e il modo di stare “tra” i configgenti ci dà la misura della mediazione. Il giudice è altrove, distante mille miglia: il giudice è “terzo” “super partes”, il suo linguaggio è meta-linguaggio; il mediatore è questo e quello, è tra le parti, parla lo stesso linguaggio dei configgenti. Il giudice decide, il mediatore “tra-duce”.

La comunità ha bisogno di riscoprire lo “stare tra” e, più aumentano le forme conflittuali, più ha bisogno di tra-durre i diversi linguaggi. Ha anche bisogno di decidere ma è un’altra cosa che attiene ad un’economia del tempo del modo: il giudice, ho detto molte volte, esiste perché “non abbiamo tempo”, perché abbiamo fretta. Il giudice deve interrompere i conflitti, deciderli, perché il sistema sociale non può sopportare la cattiva infinità dei conflitti. La mediazione, al contrario, ha bisogno del tempo di cui ha bisogno.

Dunque, ben vengano riflessioni sulla pratica della mediazione (di queste ce ne sono tante, c’è persino inflazione!), ma mai senza aver colto il senso teorico profondo del gioco comunitario che la mediazione conserva gelosamente. Per questo il libro di
Fabiana Marion Spengler, aprendosi a questi temi, offre un’importante occasione.

Roma, giugno 2011-06-14



Eligio Resta

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